SAI CHE GLI ALBERI PARLANO?

di Andrea Ciancamerla

Sai che gli alberi parlano? Si parlano. Parlano l’un con l’altro, e parlano a te, se li stai ad ascoltare. Ma gli uomini bianchi non ascoltano. Non hanno mai pensato che valga la pena di ascoltare noi indiani, e temo che non ascolteranno nemmeno le altre voci della Natura. Io stesso ho imparato molto dagli alberi: talvolta qualcosa sul tempo, talvolta qualcosa sugli animali, talvolta qualcosa sul Grande Spirito. (Tatanga Mani)

Quante volte nel mio percorso di vita mi sono imbattuto in questa verità, talora simbolicamente ed in modo del tutto immaginario, altre volte in ambito spirituale, ma spesso anche realisticamente attraverso osservazioni ed approfondimenti di lavoro professionale ed hobbistico.

Non saprei cos’altro dire riguardo all’irrinunciabile importanza degli alberi per la vita sul nostro pianeta a tutti i livelli.

Tutto è stato detto, o forse niente di veramente importante perché non si parla la loro lingua.

Eppure qualcosa lo dirò, perché senza presunzione e sfrontatezza nella realtà sono definibile come “esperto” di alberi, li studio da parecchi anni ma soprattutto so di esserne veramente innamorato ed appassionato da sempre. Ma certamente la sensazione per quelli come me è che davvero “gli uomini bianchi non ascoltano”.

Parafrasando il pellerossa, in primis gli uomini non ascoltano gli addetti ai lavori, la scienza e l’esperienza, ma questo aspetto non riguarda solo la natura, credo…

Comunque, di tutto quello che ho imparato finora, la cosa più importante è che non sono gli alberi ad avere bisogno di noi ma siamo noi che non possiamo farne a meno e non parlo solo dei benefici più noti ed essenziali per la vita come la produzione di ossigeno, l’assorbimento di CO2, la termoregolazione del clima ed il ruolo centrale nelle dinamiche ecologiche.

Senza soffermarmi su questo aspetto sappiamo che la storia evolutiva dell’uomo dipende direttamente ed indirettamente dalla natura, per il nutrimento, la cura, il rifugio, eccetera. Ed è altrettanto noto che la comparsa dell’uomo risale a circa 5-6 milioni di anni fa rispetto alla colonizzazione delle prime piante sulla superficie terrestre circa 450 milioni di anni fa.

Pertanto vien da sé che è che la natura e gli alberi non hanno alcun bisogno di noi, eppure…

Tutto dipende dai punti di vista. Se consideriamo solamente l’aspetto evolutivo è certo che le dinamiche naturali si svolgerebbero anche senza l’essere umano, ma in modo del tutto libero, imprevedibile, lento e soprattutto non sempre compatibile con la vita dell’uomo.

Quindi scrollandosi di dosso la presunzione di “paladini della natura” e considerando l’uomo al centro della natura, ci si accorge che nel mondo che conosciamo oggi, non sarebbe potuta esistere la convivenza dell’uomo con la natura se non attraverso la sua mano, in termini tecnici, la sua gestione.

Tutto il paesaggio a cui siamo abituati, specialmente del vecchio mondo, è stato modellato sapientemente ed armoniosamente in millenni di storia della civiltà dell’uomo.

Pensiamo al nostro Paese, tutto ma proprio tutto il territorio (ad eccezione forse di una minima parte della foresta casentinese) è stato influenzato nel suo aspetto dalla mano dell’uomo, certamente anche con impatti notevoli.

Ma se pensiamo ai paesaggi bucolici montani, collinari e agresti ai quali siamo tutti affezionati, non sarebbero così se non fossero stati gestiti dall’uomo.

Non parlo solo delle bellezze della campagna coltivata nei sui vari aspetti, maestranze e tipicità che portano l’Italia a primato mondiale di biodiversità agroalimentare, ma penso specialmente alla montagna che troppo spesso è vista come qualcosa di inviolato ed inviolabile.

Le foreste alpine di abeti, ordinate, virtuose non esisterebbero, le magnifiche faggete a “cattedrale” avrebbero un altro aspetto, gli antichi castagneti appenninici non ci sarebbero mai stati se gli antichi romani non avessero iniziato la coltivazione di tale albero, così come le pinete litoranee solo per fare alcuni esempi.

I bellissimi prati e pascoli alpini ed appenninici non sarebbero mai comparsi e con loro tutta la biodiversità che li caratterizza, che a piccola scala (dell’ordine di metri quadri) è molto più elevata della foresta equatoriale.

L’uomo ha sempre coltivato anche la montagna (la selvicoltura è “l’arte di coltivare i boschi” secondo una delle definizioni a me più care) per poter vivere in essa che rappresenta circa il 35% del territorio italiano ma dove ci vivono attualmente solo il 12% della popolazione.

Cosa accadrebbe e cosa in effetti sta già accadendo se l’uomo smettesse di gestire il paesaggio agrosilvopastorale montano? Lo spopolamento di queste aree a partire dal dopoguerra e soprattutto dalla fine della dipendenza del carbone, principale fonte di reddito e lavoro di quei territori ha ripercussioni a scala vastissima.

La Natura che si riprende i suoi spazi, non è necessariamente una buona notizia se, nella nozione di natura, si vuol mettere dentro anche l’essere umano.

L’argomento è certamente complesso ed ampio, ma quello che vorrei sottolineare è che l’abbandono del territorio, inteso come interruzione di pratiche colturali come pascolo e governo dei boschi in particolare, porta con sé lo stravolgimento di un equilibrio ecosistemico durato secoli nella nostra penisola e dove l’uomo è sempre stato un essere vivente centrale nelle dinamiche di questi habitat e nella morfologia del territorio.

Solo per fare alcuni esempi, versanti interi montani dove si praticava il taglio del bosco in maniera regolare, se abbandonati, potrebbero innescare fenomeni di dissesto idrogeologico difficilmente gestibili e con gravi ripercussioni per noi abitanti di pianura, oppure l’abbandono dei pascoli innesca delle dinamiche di successione vegetale che possono portare ad una consistente perdita di biodiversità animale e vegetale.

E’ vero che, a scala globale, l’incremento di aree boscate è auspicabile e fondamentale anche per contrastare il disboscamento ed il cambiamento climatico ma, nel nostro paese, la superficie boscata è quasi triplicata dalla prima guerra mondiale e non sempre la quantità corrisponde a qualità. Anzi, citando il Prof. Carlo Urbinati, in Italia  “siamo ricchi di boschi poveri”.

Non dimentichiamo il paradosso che siamo il secondo paese al mondo come importazioni di legna da ardere ed il primo europeo per legname da opera, se consideriamo che spesso questo legname viene da paesi dove non sempre c’è il rispetto per l’ambiente e per i diritti dell’uomo, saremmo veramente ipocriti a contrastare il taglio dei boschi magari parlandone davanti ad un caminetto alimentato da legname di importazione!

Inoltre, utilizzare un bosco non significa disboscarlo, al contrario non solo la superficie rimane invariata e si rigenera, ma nell’ambito della gestione sostenibile delle foreste di uso corrente in Europa, si può tagliare non più di quanto il bosco è già cresciuto senza intaccarne le riserve e capacità rigenerative.

Ad esempio, se la crescita annuale di nuovo legno (e quindi la possibilità di taglio) è il 100%,  la media europea del tasso di utilizzazione  è di circa il 60-70%, mentre in Italia siamo solo  al 20-30%.

Senza aprire il capitolo energetico e climatico ricordo solamente che la combustione di risorse forestali non immette in circolazione “nuovo” carbonio (ad eccezione per quello immesso nel ciclo produttivo come per le altre fonti) come avviene per i combustibili fossili, si parla infatti di risorsa rinnovabile in quanto è un carbonio “vecchio” ovvero già presente in atmosfera e biosfera, negli ultimi secoli perlomeno, attraverso il ciclo di assorbimento, fissazione e cessione.

Allora se vogliamo continuare ad essere parte di questa Natura non possiamo non gestirla ed abbandonarla, ovviamente in maniera sostenibile ed adattandoci ai cambiamenti che anch’essa sta vivendo. Quindi, in questa visione c’è sicuramente bisogno dell’uomo, ma visto come curatore di un delicato equilibro del quale l’uomo stesso ne è stato l’artefice.

 

Infine, parlando poi di ambito urbano, è necessario “piantare alberi e non piantare numeri”. La gestione di alberi in città comporta spazi, risorse e cure pluriennali  che non sempre sono a disposizione e non vengono soddisfatte certamente con slogan e tagli di nastri seguendo la politica del “pianta e fuggi”. Meglio piantare meno alberi ma quelli giusti e nel modo giusto e compatibilmente con le possibilità di poterli effettivamente curare e gestire successivamente, altrimenti muoiono, si sprecano risorse e si aumentano emissioni invece di ridurle.

 

Vorrei che si verificassero due cose: che si ascoltassero di più i tecnici in ambito decisionale e si ascoltassero di più gli alberi a livello umano ed individuale.

Credo che i benefici ci sarebbero da un punto di vista collettivo, sia per quanto riguardo lo sviluppo della società e personale, sia per quanto riguarda il benessere psicofisico dato ad esempio dall’abbracciare un albero scambiandosi energie positive , perché ricordatevi:

Sai che gli alberi parlano? Si parlano!!!

 

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