Equilibri Instabili

Riflessioni sul racconto “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo
di DANIELA PAVOLETTI

 

Ho letto il racconto “Casa d’altri” dopo averlo visto rappresentato in modo toccante da Silvio Castiglioni, venerdì 14 luglio durante il Festival dell’Invisibile, alla Casa dell’Ecologia Umana.

Anche il racconto “tocca”, non lascia indifferenti; la prosa poetica di D’Arzo richiede al lettore un continuo movimento dal significato denotativo a quello connotativo, da ciò che le parole nominano a ciò che significano.

Il racconto inizia così:
All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane. Tutti alzammo la testa.
In una scena che descrive quasi un presepe al contrario: sei persone chine intorno ad un morto, immobili, circondate dal buio, arriva all’improvviso un elemento di disturbo che costringe ad alzare la testa. E’ ancora molto lontano ma spezza l’immobilità e costringe ad un movimento, seppur minimo.

Segue a questa scena il dialogo fra il reverendo di Montelice, protagonista e voce narrante del racconto, e il giovane curato di Braino che si presenta da lui con una domanda: “Cosa fanno qui a Montelice?”. Prima di rispondere il reverendo ammette di aver considerato la domanda sciocca ma, cosa ancora più interessante, afferma che “sciocca sarebbe stata qualsiasi risposta.” La risposta comunque arriva ed è titubante, incerta: “Beh. Vivono… ecco. Vivono e basta, mi pare.” “E poi muoiono aggiunge qualche riga più avanti.
Il vecchio prete vive in un paese fatto di sette case da trent’anni, in mezzo a sentieri, pascoli, calanchi e creste dei monti; la sua vita è sempre uguale, equilibrata, priva di novità “Qui non succede niente di niente”; la vita stessa è meccanica: si vive e si muore e, in questo ripetersi sempre uguale dei comportamenti, ognuno ha il suo ruolo.
Questo dialogo anticipa ciò che accadrà nel seguito del racconto: l’equilibrio apparentemente stabile di una vita sempre uguale sta per essere spezzato.
Il giovane curato di Braino viene ripetutamente associato al nuovo “impossibile imbattersi al mondo in qualcosa più nuovo (corsivo nel testo) di lui”. L’incontro con ciò che è nuovo risveglia nel protagonista la nostalgia ma apre anche uno spiraglio: il nuovo esiste anche se è passeggero.

E il vero nuovo arriva davvero.

Fu una sera. Sul finire di ottobre. Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così. Senza nemmeno un pensiero.
Il protagonista in uno stato emotivo neutrale sta camminando e vede giù in fondo al canale una donna un po’ più vecchia di lui che sta lavando della biancheria.
In mezzo a tutto quel silenzio e a quel freddo e a quel livido e a quell’immobilità un poco tragica, l’unica cosa viva era lei.”

Hannah Arendt ha scritto che “il pensiero inizia quando un’esperienza di verità colpisce nel segno” e per il prete del racconto la vecchia è un’esperienza di verità.

Inizia un vero e proprio gioco di seduzione, un’oscillazione fra la ricerca dell’altro e la fuga, fra il desiderio e la paura, tra il lancio del sasso e il ritiro della mano. All’inizio c’è l’attesa: “Prima o poi vengono tutti, da me – mi dicevo – Tanto più che l’inverno è alle porte. Finiscono col venire tutti, io lo so, prima o poi. Dovrà uscir dalla tana anche lei”. “E invece no. Passò anche l’autunno. (…) E la vecchia non uscì dalla tana.
Poi arriva l’azione indiretta: il reverendo chiede al ragazzo che gli fa da chierico di raccogliere informazioni sulla vecchia.
E poi arriva il primo incontro: lui la osserva ben bene, lei ad occhi obliqui si scusa per non essere mai andata in parrocchia; lui la invita a sedersi ma lei non lo fa e finalmente ad un certo punto porta anche lei una domanda. “E’ vero o no che anche voi… sì, la Chiesa… ammette che due che si sono sposati possono anche dividersi, e uno è libero poi di sposare chi vuole?”. Il prete non capisce, si arrabbia, la domanda non risuona con quello che sta vivendo “Per giorni e giorni non avevo pensato ad altro che a lei, ero andato ogni sera al canale e ci avevo fatto anche su gran disegni: e adesso ecco qua: tutto quel che ne usciva era una storia da far ridere le stalle per tutto quanto l’inverno”.
Lei interagisce con lui, dolce e implacabile, ma lui continua a non capire il senso delle sue parole, si arrabbia, fino a quando si rende conto che qualcosa deve accadere e che la domanda non era che un pretesto per arrivare ad altro. Lo capisce, sì, ma troppo tardi e lei se ne va. “Ero triste come un ragazzo, parola: e lasciarla andare così era più di quel che potessi permettermi”.

Non tutti gli incontri sono uguali, ogni giorno entriamo in relazione con molte persone ma non tutte ci toccano; alcuni incontri interrogano il nostro mondo interiore, portano domande e inquietudine, sono uno stimolo all’agire. Che cosa hanno di speciale certi incontri?
Nel libro “Il passeggero” di C. McCarthy ad un certo punto si legge: “E cosa siamo noi? Dieci per cento biologia e novanta per cento mormorio notturno”; ecco quando i mormorii notturni, invisibili agli occhi, si accordano e vibrano fra loro l’incontro è un’esperienza di verità e pone una domanda di senso.

Più avanti nel racconto, D’Arzo scopre le carte: il prete, venuto a sapere che la vecchia ha portato in parrocchia una lettera per lui e poi è tornata a riprenderla, spinto dalle emozioni in subbuglio, si reca a casa della vecchia signora e le chiede di avere la lettera che considera sua, vuole leggerne il contenuto, sente che contiene l’occasione di una svolta. La lettera è stata gettata nell’acqua del fiume ma la vecchia ritrova le parole in se stessa e le mette nelle mani del reverendo, mettendoci in qualche modo anche la sua vita.
“- Ecco, nella lettera c’era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima.
Mi voltai senza aver ben capito.
– Anche uccidersi…sì – spiegò lei con una tranquillità da bambina.

Questo è il punto della possibile svolta: un’anima a te gemella invoca un tuo abbraccio fatto di parole o di gesti e aspetta di essere compresa. La domanda di senso è assoluta e porta con sé la richiesta di agire.

Il prete è preso alla sprovvista e rimane in silenzio anche se nella testa lo assalgono tante parole che non pronuncia perché non sono sue: “Tutte cose d’altri, però: cose antiche: e per di più dette mille e una volta. Di mio non una mezza parola: e lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio, e tutto il resto era meno che niente”.
Tutte cose d’altri perché spesso noi siamo casa d’altri, ci facciamo abitare da ciò che arriva da fuori di noi senza chiederci il senso di ciò che percepiamo, con i sensi, con la mente e con le emozioni.

Certi incontri non lasciano scampo, chiedono verità e la verità non può che essere mia; richiede fatica, dedizione, spirito di ricerca, capacità di ascolto, tempo, il coraggio di essere nuovi e di rompere un equilibrio.
Non sempre siamo in grado di dare risposte, il reverendo non c’è riuscito, ha perso l’occasione per dare inizio a qualcosa di nuovo. “Non provavo dolore, però, né rimorso o malinconia o roba simile. Mi sentivo solo dentro un gran vuoto come se ormai non potesse capitarmi più niente. Niente fino alla fine dei secoli”.

Il racconto finisce coerentemente con un’ulteriore domanda rivolta al lettore:
“Tutto questo è piuttosto monotono, no?”
La mia personale risposta sarebbe che no, tutto questo non è affatto monotono, è la vita.

Silvio Castiglioni nel dialogo finale dopo lo spettacolo raccontava che in scena, pur essendo tutto il tempo su una specie di scala, si muove costantemente spostando il peso da un piede all’altro perché altrimenti come esce la voce?
Mi è sembrata un’immagine potente della vita: siamo fatti per EQUILIBRI INSTABILI che obbligano a non stare fermi anche quando le condizioni esterne tentano di impedircelo.

Oscilliamo fra le pieghe del tempo, fra la luce e il buio, fra l’incontro con gli altri e l’abitare noi stessi.

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