Quello che non ho imparato dal COVID

di Francesca Bertoni

Ho preso il Covid.

Una domenica mattina mi sono svegliata con la febbre, il mal di testa, e tutti i muscoli dolenti.
Non uscivo di casa da settimane, perciò era impossibile aver preso freddo, l’unico motivo di quella febbre poteva essere solo il virus maledetto. Tanto più che la ragazza che mi aiuta in casa aveva avuto la febbre appena tre giorni prima.
Ho provato a tranquillizzarmi, all’inizio, ma più le ore passavano più mi sentivo certa di aver preso il Covid.
Stesa a letto, ho iniziato a piangere, mi sembrava una situazione surreale, mi sembrava che lo spauracchio che fino a quel momento avevo provato a tenere distante da me, si fosse intrufolato nel mio corpo “alla traditora” – mi sembrava un incubo.

Durante tutti questi mesi ho sempre pensato che se avessi contratto il virus, a causa del mio sistema immunitario debolino non avrei avuto scampo. Mi immaginavo intubata, mi immaginavo in un coma farmacologico dal quale non sapevo mi sarei risvegliata, immaginavo tutte le brutture che ascoltavo ogni sera al tiggi’.
Ho continuato a piangere. L’ho fatto fino alla telefonata del medico il quale, dopo aver fatto il tampone, mi ha comunicato che ero positiva.

Positiva.

Eppure, per fortuna o grazie a qualche dio, nulla di ciò che più temevo è accaduto. Due giorni di febbre, tanta debolezza, mal di testa, giorni in cui sembrava tutto passato e il giorno dopo in cui sembrava che un treno mi fosse passato addosso ma, alla fine, niente di veramente grave.

 

All’inizio, pensavo di intitolare questo piccolo scritto “le cose che ho imparato dal Covid”.
Ho cambiato idea: il fatto è che non si impara nulla, quando ci si ammala.
I giorni subiscono una specie di stand-by, si rarefanno, s’annebbiano, fluttuano in un senso di irreale. Triste.
Triste la maggior parte del tempo, lo stato d’animo come arreso – ho convissuto con un virus che sentivo dentro me ogni giorno, ogni ora.
Mi accorgevo, a volte, di aver dimenticato di fare quel che faccio abitualmente: guardare alla finestra. La prima cosa, appena mi alzo, ancor prima di mettere il caffè sul fuoco e di dar da mangiare ai gatti, è guardare alla finestra, guardare il cielo in una sorta di buon giorno augurato a me e al mondo. Ecco: non lo facevo più. Ma non per scelta, non lo facevo e basta.

Il giorno è diventato un ininterrotto rotolo di ore e le ore erano scandite non più da luce e buio ma da dolore qui o là o malessere o fame o nausea o capogiri o.

E’ un giorno che è durato dodici giorni. E’ un giorno vestito di paura – continua.

Continua.

La paura non passava mai.
Se n’è andato l’olfatto, e il gusto: paura.
Brividi di freddo da febbre: paura.
Stanchezza da non aver voglia neanche di parlare: paura.
Aver voglia solo di dormire: per non sentire la paura.

Ma

I polmoni sono rimasti liberi. Li ho anche messi alla prova provando a fumare.
La saturazione non è mai scesa sotto 96.
Niente tosse.
La febbre è durata poco.

 

E nel mezzo di questo lungo Giorno srotolato in ore gli amici mi hanno portato la spesa a casa – il mio portone, che si era sempre aperto in un via vai di gente, ora si schiudeva appena, giusto lo spazio per fare entrare una busta, saluti frettolosi sul pianerottolo. Ho ricevuto decine di telefonate tutti i giorni, regali, libri, una piantina, persino un mazzo di rose dall’Inghilterra.

Quando ci si ammala, c’è poco da imparare. Forse solo una cosa: stare. Avere pazienza, curarsi come meglio  si può (e io questo meglio lo devo ancora imparare), ascoltarsi ma non troppo, stilare magari una lista delle cose che si vorrebbero fare una volta guariti (mai fatto, sebbene ci abbia pensato a lungo). Stare. Stare e basta.

Al quattordicesimo giorno, dopo che il secondo tampone è risultato negativo, mi sono bardata come fossi in Siberia e sono uscita.
Appena fuori, ho abbassato un poco la mascherina, a scoprire il naso, e ho respirato a lungo.
Ho guardato il cielo.
E ho pensato solo: è andata bene, alla fine, dài.

 

PS: nei giorni di quarantena mi è capitato di vedere un video che mi ha molto toccato, perché sembrava descrivere i miei giorni ma non solo, credo quelli di un po’ tutti in questo momento. Siccome è in inglese, mi sono permessa una grossolana traduzione.

https://youtu.be/OT40Rmjwd-Q

Se sei, all’inizio, tremendamente ansioso, abbi pazienza. Peggiorerà, poi però ti ci abituerai. Forse.
Inizia con le sensazioni lecite, sconforto, mancanza di concentrazione, la tristezza della solitudine.
Puoi provare a fare yoga, puoi spegnere la radio quando ti sembra troppo alta, puoi mandare un messaggio alla tua famiglia o agli amici o ai colleghi, tanto in ogni caso non potrai uscire di casa, perciò non è pericoloso.
E ci sarebbe anche la palestra, non ci puoi andare ma puoi sempre fare finta che puoi fare i piegamenti da solo nella tua camera da letto.
E c’è poi il trasporto pubblico… ma meglio evitarlo: hai sempre preghiera e meditazione, da usare se senti un dolore al petto perché la tua ansia non riposa mai – prenditi un attimo, respira.

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